Mannaggia a me che ho fatto la prima parte di questo post che è piaciuta così tanto, ora ho l’ansia da prestazione di non riuscire a mantenere lo stesso livello di interesse nei miei quattro lettori… Non ho nemmeno nuovi grotteschi aneddoti da raccontare in modo divertente, poiché negli ultimi bellissimi eventi a cui ho partecipato queste sere si pagava caro un biglietto di ingresso, e sui buzzurri l’arte a pagamento ha lo stesso effetto dell’Autan sulle zanzare (ma non temete per le loro finanze, c’hanno tutti l’iPhone 14 Pro Max e il macchinone da parcheggiare sui passi carrabili e i posti riservati agli handicappati).
E quindi fatevela andare bene, stavolta si passa direttamente alla cultura, con la natura ho già dato oggi a pranzo che sono andato in un agriturismo in montagna e davanti ad uno splendido panorama ho mangiato tanto da addormentarmi con la testa sul tavolo alla fine del pasto; mi sa che non sarò mai l’intellettuale che aspiro ad essere... Ma ora sono sveglissimo e scrivo per voi e per me, poiché ormai mi sono risolto a trarre un libro da questi post chilometrici, quindi bando alle ciance e torniamo al nostro argomento centrale: la fonte del controllo.
Abbiamo detto precedentemente che quando il locus of control (perbacco quanto mi dà fastidio usare l’idioma dei nostri padroni) è interno la persona si sente libera di determinare la sua vita e con il giusto impegno ci riesce, quando è esterno attribuisce ad altri la responsabilità delle sue scelte e delle conseguenze che comportano, infliggendosi sconfitte e frustrazioni.
In questo nuovo post voglio dunque esaminare due casi particolari e comunissimi di fonte del controllo esterna al fine di far riflettere i suddetti quattro lettori e fargli magari cambiare qualcosa sul modo in cui pensano sé stessi e il loro percorso esistenziale.
Queste due condizioni di sviamento mentale che devastano la vita della gente sono: in primis la credenza che il passato vissuto determini il futuro o abbia esaurito le possibilità dell’individuo, e a seguire quella che la famiglia sia importante nel determinare l’identità della persona e le sue possibilità di realizzazione. Ovviamente sono concezioni collegate, dato che il passato della stragrande maggioranza di noi riguarda dinamiche familiari, ma gli argomenti sono tanto estesi che mi sa che divido questa parte in ulteriori sezioni; non me ne vogliate, noi perfezionisti ossessivi siamo fatti così, per ora vi beccate il primo atto della seconda parte, per il secondo dovrete attendere il prossimo post.
ATTO PRIMO, SCENA PRIMA: IL RIMPIANTO DEL PASSATO
Cominciamo a introdurre l’argomento con una perla della cultura pop, la canzone di Gabry Ponte uscita nel 2016 “Ma che ne sanno i 2000”:
“Di Battisti e Mogol, del FestivalBar / Ma che ne sanno i 2000 / Di quando c'era il walkman / E Fiorello al Karaoke / Dei Nirvana e dei Guns / Della musica dance / Ma che ne sanno i 2000 / E di quando alle tre c'era Bim Bum Bam / Del GameBoy e di Blue, da ba dee, da ba daa / L'estate sta finendo / Il valore di quel tempo / Lo sappiamo solo quando lo perdiamo come Luigi Tenco / Mangio solo pizza / Vita di provincia / Vivo in una fogna sono una tartaruga / Sì, ma sono una cazzo di tartaruga Ninja! / Ridatemi il mio tempo da bambino / Quando Banderas era Zorro e non il panettiere del Mulino / Quando ho cominciato / Quando capitano uncino non era Dj Francesco, era Bennato / Potessi rifare tutto quello che ho già fatto / Tutto quello che oggi non posso fare più / Prenderei la vita dai 18 ai 24 e la metterei in loop / Ma che ne sanno i 2000 [x3] / Di Battisti e Mogol […] e di Blue, da ba dee, da ba daa / Gabry Ponte / Da-da-da-nti / Di Jeeg Robot e MacGyver / Che ne sanno i 2000 / Del Mega Tribe e Street Fighter / Che ne sanno i 2000 / Degli scherzi dalla cabina / Che ne sanno i 2000 / Di Trainspotting, Kenshiro, dell'Uomo Tigre, di Super Kart degli Olandesi del Milan / Ma che ne sanno i 2000 [x2] / Dei Nirvana e dei Guns […]”
Raccapricciante eh? Non rimpiango niente di quel tempo se non l’assenza di regole, per cui tutti eravamo più liberi, tanto che potevano ridere in pubblico di barzellette che oggi ci porterebbero in galera. Se anche voi, come me, pensando al vostro passato giovanile avete un attacco di panico incipiente, altro che rimpianti, sappiate invece che la pagina Facebook omonima della canzone sopra riportata raccoglie ben un milione di nostalgici, i quali davvero si commuovono pensando alle brutture che hanno caratterizzato la loro infanzia, reinterpretandole come qualcosa di bello e di cui rammaricarsi per la perdita, evidentemente quando le confrontano con ciò che hanno adesso e che non riescono ad apprezzare appieno, probabilmente perché per loro insoddisfacente.
Il rimpianto del passato è infatti un fenomeno sociale che non mi risulta sia stato studiato a fondo (trovo i libri sull’argomento dell’alfiere del capitalismo Johan Norberg piuttosto faziosi); certamente è un fenomeno connesso con la specie umana, dato che lo storico Samuel Noah Kramer ci segnala che addirittura i Sumeri del quinto millennio avanti Cristo già rimpiangevano la decadenza dei costumi, soprattutto all’interno della famiglia: in una tavoletta d'argilla troviamo scritto che i regnanti abusano della gente, i mercanti imbrogliano sempre più, e soprattutto che “il figlio ha parlato con odio a sua madre, il fratello minore ha sfidato il fratello maggiore, il quale a sua volta ha risposto al padre”. A quanto pare gli aspetti sostanziali della vita, tecnologia a parte, non è che siano cambiati poi più di tanto, e una maggiore aspettativa di vita non corrisponde ad un proporzionale aumento della qualità della stessa.
Ma torniamo alla dimensione personale e andiamo a vedere come il fenomeno del rimpianto del passato viene rappresentato nel mondo letterario. Allo scopo mi sembra impossibile non riportare appropriatamente l’incipit dell’opera somma di Marcel Proust “Alla ricerca del tempo perduto” (1917):
“Per molto tempo, mi sono coricato presto la sera. A volte, appena spenta la candela, gli occhi mi si chiudevano così in fretta che nemmeno avevo il tempo di dire a me stesso: «M’addormento». E, una mezz’ora più tardi, il pensiero che era tempo di cercar sonno mi ridestava; volevo posare il libro che credevo di avere ancora fra le mani, e soffiare sul lume; non avevo smesso, dormendo, di ragionare su ciò che avevo appena letto, ma quelle riflessioni avevano preso una piega un po’ particolare; mi sembrava d’essere io stesso l’oggetto di cui il libro si occupava: una chiesa, un quartetto, la rivalità fra Francesco I e Carlo V. Questa convinzione sopravviveva ancora qualche istante al mio risveglio; non offendeva la mia ragione, ma premeva sui miei occhi come una squama e impediva loro di rendersi conto che la candela non era più accesa. Poi, cominciava ad apparirmi inintelligibile, come, dopo la metempsicosi, i pensieri di un’esistenza anteriore; l’argomento del libro si staccava da me, ero libero di pensarci o meno; ma subito recuperavo la vista ed ero molto stupito di trovare intorno a me un’oscurità dolce e riposante per i miei occhi, ma forse più ancora per l’animo mio, al quale essa appariva come una cosa senza ragione, incomprensibile, un che di veramente oscuro. Mi domandavo che ora potesse essere; udivo il fischio dei treni che, più o meno di lontano, come il canto di un uccello in una foresta, segnando le distanze, mi descriveva la distesa della campagna deserta, dove il viaggiatore si affretta verso la stazione più vicina; e il sentiero che percorre gli resterà impresso nella memoria per l’eccitazione che suscitano in lui luoghi nuovi, gesti inconsueti, i discorsi appena fatti, gli addii sotto la lampada estranea che lo seguono ancora nel silenzio della notte, la dolcezza prossima del ritorno. Appoggiavo teneramente le mie gote alle belle gote del guanciale, piene e fresche come quelle della nostra infanzia. Accendevo un fiammifero per guardare l’orologio. Quasi mezzanotte. È il momento in cui il malato, che è stato costretto a mettersi in viaggio e ha dovuto dormire in un albergo sconosciuto, svegliato da una crisi, si rallegra nello scorgere sotto la porta una striscia di luce. Che gioia, è già mattina! Tra pochi istanti i domestici si alzeranno, potrà suonare il campanello, verranno a dargli aiuto. La speranza del conforto gli dà coraggio nella sofferenza. Ecco, gli è sembrato di udire dei passi; i passi si avvicinano, poi si allontanano. E la striscia di luce sotto la porta è scomparsa. È mezzanotte; hanno spento il gas; l’ultimo domestico se n’è andato, e bisognerà passare tutta la notte a soffrire senza rimedio.”
Mah. E poi bah. Insomma, che palle… già che definisci quel tempo “perduto”, cosa vuoi andare a cercare? I tuoi ricordi reinventati per l’occasione? Per quanto mi riguarda, quando ero bambino la notte immaginavo di vivere imprese eroiche in mondi fantastici e spesso percepivo con angoscia il Diavolo che tentava di possedermi (forse c’è riuscito, chissà), ma oggi tutto questo è solo un’ombra sfocata nella mia mente, e ne sono ben contento visto che ora, da adulto che ha trovato la padronanza di sé, non ho più bisogno di fantasticare fughe in altre dimensioni e non temo più gli assalti del Male metafisico, ma solo quelli fin troppo concreti di coloro che vogliono ridurci in schiavitù perculandoci con pandemie di influenza e collassi climatici, guarda un po’ che caso, arginabili solo con politiche industriali insostenibili per la popolazione meno abbiente… Basta Andre’, lascia perdere la lotta ai massoni e torna all’argomento, me lo dico da solo.
Riportandoci al nostro tema, una variante dell’infanzia rimpianta la troviamo in Natalia Ginzburg, e per illustrare il punto riporto l’incipit del suo “Lessico famigliare” (1963):
“Nella mia casa paterna, quand'ero ragazzina, a tavola, se io o i miei fratelli rovesciavamo il bicchiere sulla tovaglia, o lasciavamo cadere un coltello, la voce di mio padre tuonava: Non fate malagrazie! Se inzuppavamo il pane nella salsa, gridava: – Non leccate i piatti! Non fate sbrodeghezzi! non fate potacci! Sbrodeghezzi e potacci erano, per mio padre, anche i quadri moderni, che non poteva soffrire. Diceva: – Voialtri non sapete stare a tavola! Non siete gente da portare nei loghi! E diceva: – Voialtri che fate tanti sbrodeghezzi, se foste una table d'hôte in Inghilterra, vi manderebbero subito via. Aveva, dell'Inghilterra, la più alta stima. Trovava che era, nel mondo, il più grande esempio di civiltà. Soleva commentare, a pranzo, le persone che aveva visto nella giornata. Era molto severo nei suoi giudizi, e dava dello stupido a tutti. Uno stupido era, per lui, «un sempio». – M'è sembrato un bel sempio, – diceva, commentando qualche sua nuova conoscenza. Oltre ai «sempi» c'erano i «negri». «Un negro» era, per mio padre, chi aveva modi goffi, impacciati e timidi, chi si vestiva in modo inappropriato, chi non sapeva andare in montagna, chi non sapeva le lingue straniere. Ogni atto o gesto nostro che stimava inappropriato, veniva definito da lui «una negrigura». – Non siate dei negri! Non fate delle negrigure! – ci gridava continuamente. La gamma delle negrigure era grande. Chiamava «una negrigura» portare, nelle gite in montagna, scarpette da città; attaccar discorso, in treno o per strada, con un compagno di viaggio o con un passante; conversare dalla finestra con i vicini di casa; levarsi le scarpe in salotto, e scaldarsi i piedi alla bocca del calorifero; lamentarsi, nelle gite in montagna, per sete, stanchezza o sbucciature ai piedi; portare, nelle gite, pietanze cotte e unte, e tovaglioli per pulirsi le dita.”
Peggio mi sento, questo me lo fecero pure leggere alle medie, un’altra mega rottura di palle. L’unico lessico familiare che ricordo io è mia madre che mi ha chiamato “ciccio” fino ai sedici anni almeno, ed io odiavo quel nomignolo, che trovavo offensivo e derisorio, sollazzava lei umiliando me in un trionfo di assenza di empatia; ha smesso solo quando le ho spiegato quanto lo trovavo inappropriato, fortunatamente dispiacendosi. Ma a me, in un certo senso, è andata bene, poiché molte persone vengono invece trattate con dolcezza finché sono piccole, poi crescono e con l’adolescenza divengono sgradevoli ai genitori, che perdono i loro animaletti da compagnia, e si trovano incomprensibilmente deprivati di amorevoli attenzioni, divenendo spesso invisibili a quelli che prima li vezzeggiavano in vario modo. Altre persone ancora, e non sono poche, vengono invece ricoperte semplicemente di insulti e maledizioni per tutta la loro giovinezza, con un florilegio di “cretino”, “cattivo”, “disgraziato” e via dicendo. Proprio un bel lessico familiare, non c’è che dire.
Insomma, quando una persona colloca nel passato, soprattutto infantile, le fonti della sua gratificazione e dunque lo rimpiange con amara nostalgia, ha spostato il suo locus of control dal Sé adulto attuale ad una dimensione temporale più o meno attribuita a terzi (nonni, genitori, baby-sitter) o proprio all’innocenza perduta o a qualche altra qualità mitizzata dell’infanzia, limitando così il suo potenziale di appagamento e realizzazione personale presente e futuro.
Mentre sto scrivendo mi sovviene fra l’altro che il più chiaro ricordo di uno sguardo amorevole e di una carezza affettuosa ricevuti nella mia infanzia l’ho avuto, in un unico momento, da una mia baby-sitter, tale Francesca, a cui per quello che mi ha fatto auguro ogni bene, pure se ad altri bambini magari li torturava. Ma non rimpiango Francesca, perché oggi ho una moglie con cui ci amiamo e che l’affetto non me lo fa mancare (e questo vuol dire che tanto male non la tratto), e dunque tutti noi siamo capaci in ogni momento di soddisfare i nostri bisogni, purché comprendiamo come fare e siamo disposti a spenderci per farlo.
ATTO PRIMO, SCENA SECONDA: IL MITO DEL TRAUMA INSUPERABILE
La letteratura sulle conseguenze di eventi orribili e dolorosi subiti dalle persone, perlopiù violenze fisiche e sessuali, ma anche morti violente di persone care, è sterminata, ma può essere riassunta in questo modo: quando subisci un evento traumatico il ricordo dello stesso ti perseguita e modifica la tua personalità, e se lo vuoi superare lo devi in qualche modo rivivere con uno spirito diverso, comprendendo che le tue risorse attuali ti permettono di andare oltre e di vivere una vita nuova in cui non hai più bisogno di identificarti in quel dolore. E su tutto questo sono tendenzialmente d’accordo, ma ritengo sia opportuno chiarire alcuni punti della faccenda.
“Quando ero piccola un cane mi ha quasi sbranata. Da quel momento ho il terrore dei cani e la mia vita si è molto limitata. Purtroppo la gente spesso ama i cani, non sa quanto possono essere pericolosi e non capisce quanto io possa soffrire nel vederli anche solo da lontano. Molti quindi non mi comprendono e io mi sento sola e svalutata”. Se sostituiamo al cane un incidente stradale, una molestia o uno stupro, oppure un’aggressione subita, o il tradimento di un partner, o una grave perdita economica, o una malattia o un crimine violento scampati per miracolo o che hanno ucciso un proprio caro, la storia non cambia: io non sono più lo stesso perché ho scoperto l’esistenza del Male e quanto questo può essere pericoloso e distruttivo, ed ora la mia vita è limitata e compromessa per sempre.
Purtroppo o per fortuna, quanto affermato sopra è semplicemente falso e, inconsapevolmente o meno, viene usato come scusa per fuggire dalla vita in qualche grado: non posso lavorare, non posso avere rapporti, non posso stare con gli altri, non posso fare progetti futuri e simili. Famo a capirci, i traumi sono per definizione esperienze orribili, ma fanno parte della vita e di per sé non comportano strascichi particolari; basti pensare che nella maggior parte dei paesi del mondo (e molto presto anche nel nostro), si vive a contatto con la morte, la violenza, la malattia e la povertà come realtà abituali, e gli abitanti di quei luoghi non sono tutti traumatizzati, anzi spesso se la ridono e guardano al futuro con fiducia. Come fanno?
L’innesco del trauma e il motore della sua persistenza nel presente è la vulnerabilità che l’evento ha messo a nudo nella persona. Per fare un esempio brutale, ma efficace, la morte di un figlio è traumatica perché il genitore ritiene di non poter avere altri figli, di non poter reinvestire il suo affetto su quelli eventualmente sopravvissuti o su altri che potrebbero venire, o semplicemente di non avere una vita abbastanza soddisfacente al di fuori del suo ruolo genitoriale, precipitando quindi nel vuoto esistenziale. Analogamente, se subisco una violenza sessuale ciò che è orribile e devastante è l’aver sperimentato la mia debolezza e vulnerabilità, il fatto che nessuno sia intervenuto in mia difesa e dunque la mia insignificanza per gli altri, l’essere stato trattato come un oggetto sessuale e non come una persona, e pensare che tutto questa descriverà per sempre la mia identità e la mia vita futura.
Considerarsi vulnerabili vuol dire che la fonte del controllo sulla propria vita è passata dal Sé a qualcuno o qualcosa al di fuori, o almeno questo è ciò che abbiamo sperimentato, e questa transizione è un’operazione interiore che abbiamo intenzionalmente effettuato noi stessi senza accorgercene, in quanto avevamo bisogno di deresponsabilizzarci su quanto accaduto per ridurre il senso di colpa e dunque il dolore dovuto alla responsabilità, vera o falsa che fosse, di esserci messi nei guai o aver contribuito a finirci. Finché perciò la fonte del controllo non ritorna interna, ovvero la persona non ritrova la percezione che la propria esistenza sia frutto delle proprie azioni e non delle scelte di altri o di forze incontrollabili (la malattia, il terremoto, la crisi di governo), il trauma non si può superare.
Per comprendere quanto ho appena scritto, immaginiamo la terribile situazione di una ragazza violentata; se quella dice: “Non dovevo uscire in minigonna da sola ubriaca dal locale alle cinque di mattina” può aver ragione come no sui fattori di rischio della disgrazia, ma mantiene su di sé la fonte del controllo, e dunque può ritenere che cambiando il suo atteggiamento nel futuro sarà più al sicuro. Se invece dice: “Il mondo è cattivo, lo Stato non ci protegge, gli uomini sono tutti porci”, la vedo ardua per il suo futuro recupero psicologico dato che, non potendo agire su nessuna di queste condizioni, finché non cambia idee vivrà in una condizione di permanente vulnerabilità.
Dato che la fonte del controllo può essere esterna o interna, conseguentemente due sono le strade che permettono il superamento del trauma accaduto: che si abbia una conseguenza riparatoria adeguata per il danno subito (controllo esterno), oppure che l’evento accaduto perda ai miei occhi il suo significato (controllo interno). Nel caso del controllo esterno l’autore del danno, quando esiste, deve venire adeguatamente punito da un tribunale come dal karma in modo che io senta che il mondo gioca secondo delle regole e che non sono esposto al caos, oppure che faccia nei miei riguardi una tale ammenda da poter attenuare la mia rabbia e la mia disperazione, così che io possa percepire che il prossimo non è solamente un nemico pericoloso. Nel caso del controllo interno invece sono io che smetto di avere paura, perché ho deciso di cambiare me stesso e ho risolto le mie vulnerabilità.
Un padre violento non fa più paura se capisco con certezza che sono diventato abbastanza forte da difendermi da lui, e la perdita di una persona amata non è irreparabile se comprendo che posso ancora amare ed essere riamato. Un corpo menomato può aprire a nuove possibilità della mente, mai esplorate prima, e anche una condanna a morte può avvicinarci al mondo dello spirito o alla dimensione eroica della vita come nient’altro al mondo. Il mio corpo si rigenera e si ripara, i legami si ricostruiscono, il senso della vita si ridefinisce; tutto purché io rinunci alla concezione di me come di una vittima del mondo e delle persone, purché io la smetta di pensarmi come danneggiato e bisognoso di supporto.
Noi non siamo più bambini in balia di una realtà incontrollabile e pericolosa, ma adulti ricchi di potenzialità che possono ottenere ciò che vogliono se accettano di smettere di dipendere dagli altri per ricominciare a credere in sé stessi, se recuperano la consapevolezza che la fonte del controllo è sempre stata in loro, anche quando credevano di essere vittime del mondo.
Il passato è solo un’ombra nella memoria, utile a istruirci sulla vita, ma ciò che contiene appartiene al regno mentale, non a quello reale. Il presente è tutto ciò che è, ed è meglio di tutto il nostro passato perché è l’unica cosa vera; e se vogliamo qualcosa in più, allora il futuro è la nostra meta.